Etica, moralità e critica videoludica tra vita fisica e videogioco



N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#2 di Reflexions, la video-rubrica di Ludenz basata su riflessioni afferenti alla cultura del (e oltre il) videogioco.
È possibile visionare l'episodio integrale cliccando il video sopra.

"Credo che una delle domande oggi più pregnanti e interessanti da formularsi relativamente ai videogiochi sia se la simulazione della moralità, dei contesti morali nella virtualità dei videogiochi possa educare a un’etica e una moralità nei contesti fisici fuori dal videogioco.
In genere, quando mi trovo ad affrontare quesiti di questo tipo, pertinenti cioè alla sfera della questione morale, considero sempre un presupposto: per essere davvero morali bisogna trovarsi in situazioni in cui nelle scelte effettuate si ha qualcosa che ci riguarda soggettivamente. Qualcosa da perdere, o a cui rinunciare. Trovo molto relativo sentenziare dall’esterno sulla morale altrui quando non si è coinvolti direttamente nei contesti e negli ambiti analizzati. Quando invece si è coinvolti in prima persona è più facile che venga attivata la propria coscienza al fine di poter conoscere quelli che sono i propri criteri di moralità, individuali, personali. E questo riguarda anche il videogioco.
È molto facile donare al videogioco uno status di non-realtà. Così come è facile presumere che l'unica possibile esperienza per il corpo fisico sia quella che si dà nella vita quotidiana. I media come i videogiochi però virtualizzano il corpo, lo potenziano, lo pongono su un nuovo piano di esistenza di interazioni con l’ambiente virtuale. Nella quotidianità il corpo del videogiocatore entra in contatto sia fisicamente con un controller, un mouse, uno schermo, un visore di realtà virtuale, una telecamera tipo Kinect che mappa la posizione del corpo nello spazio e la proietta e la restituisce sullo schermo. Allo stesso tempo il videogiocatore percepisce il proprio corpo anche nel mondo virtuale di gioco.
Si può affermare che il videogioco, come ogni media che mette in moto la virtualizzazione, deterritorializza, delocalizza l'esperienza del corpo. L’esperienza non si identifica più unicamente nel corpo fisico agganciato all'ambiente fisico locale - le nostre stanze, i nostri salotti, ecc.. - ma è anche all’interno degli ambienti virtuali, cosicché il videogiocatore è tutte queste forme corporee, e può spostare la propria attenzione sull'una o sull'altra, a seconda delle esigenze.
Ciò per dire che la presenza “fisica” in un ambiente non è più “reale” o più vera di quella data dall’immersione in uno virtuale simulato, perché dal punto di vista percettivo e motorio, non c'è differenza negli stimoli che emergono dal mondo fisico e dal mondo mediato del “videogioco”. Sentirsi presenti nella realtà fisica o quella immateriale del videogioco dipende dalla percezione dominante in un dato momento.


Ora, dato un videogioco X, esso offre i medesimi contesti e le medesime situazioni per ogni videogiocatore. Il problema risiede nel fatto che la simulazione di contesti virtuali nei quali si è chiamati a un agire di tipo morale – uccido o non uccido il nemico, salvo o distruggo il mondo - non può essere presa quale indice analitico per misurare la moralità di un individuo, semplicemente perché nel videogioco il giocatore è sempre cosciente di essere in un sistema simulativo e finzionale, che garantisce la sua incolumità rispetto alle conseguenze del suo operare.
In genere c’è anche da specificare che normalmente il videogiocatore non si sofferma a riflettere più di tanto sul significato e sulla portata delle azioni simulate e performate nel contesto virtuale, bensì le confina in un ambito di intrattenimento, molto spesso spettacolarizzato, che muore lì, in ciò che viene compiuto nel gioco.
Videogiocando, ciò che spesso viene sviluppata è magari una cultura ludica e spettacolarizzata della scelta morale compiuta all’interno del videogioco, ma è difficile che la si rapporti a se stessi nel mondo fuori dal gioco. Dovrebbe esistere un sistema tecnologico capace di favorire uno stato cognitivo orientato alla dissociazione temporale, al coinvolgimento emozionale, a una proiezione e a un transfert così potenti verso il mondo di gioco da far avere al giocatore oblio di stare facendo parte di un mondo simulato.
Mi riferisco proprio a un contesto di immersione totale che sappia sfociare nella “presenza”, cioè nel giocatore che giunge a sentirsi e a percepirsi in un ambiente che rimane sì sintetico, ma che per il giocatore stesso è come se non fosse mediato, quindi non distaccato dalla realtà. Penso a una sorta di ricollocazione corporea allucinata, una sorta di Matrix che illude al punto tale da far credere di stare rispondendo con le proprie azioni – solamente - a ciò che accade nel mondo di gioco.
Ecco, nel momento in cui il videogiocatore giunge a sentire di essere autore intenzionale delle proprie azioni a un livello tale da credere di stare realizzando quasi un agire per lui esistenziale, allora il videogioco, lo spazio virtuale immateriale, potrebbe risultare un indice attendibile per valutare l'esperienza morale dell’agire degli esseri umani anche rispetto alla loro soggettività, al rapporto di questa con gli altri e col mondo fuori dal gioco, col mondo fisico in generale.
“Dimmi come giochi e ti dirò chi sei”, si potrebbe pensare.
Ad oggi, tutto ciò che rappresenta il giocatore nel mondo di gioco - da un avatar bidimensionale o tridimensionale quale protesi esterna, una visuale in soggettiva in Realtà Virtuale o meno con la camera all’altezza degli occhi - è un espediente che aiuta a internalizzare l’universo di gioco, per il quale il giocatore deve impegnarsi per farsi complice. C’è chi addirittura ha definito l'avatar “la manifestazione incarnata dell'impegno del giocatore con il mondo di gioco”, per dire. Ma da qui ad avere la certezza che il videogioco possa rappresentare l’immagine perfetta dei criteri morali propri del giocatore, ovviamente ce ne passa.

Grand Theft Auto: esempio classico di uno spazio di disconnessione
dei criteri morali del videogiocatore tra vita fisica e videogioco

E così per me, quando parliamo di morale, la dicotomia, la divisione, lo scarto che passa tra mondo fisico e quello fittizio immateriale è un po’ come la dissonanza che intercorre tra il consumare certi prodotti culturali, il farsi promotori appassionati di qualcosa che contiene alti valori morali, ma poi, quando sarebbe necessario, questi valori non vengono applicati nella vita quotidiana.
Mi spiego con un esempio.
Penso a uno di quegli esperimenti sociali che sono diventati virali in rete, e che sfruttando le apparenze testano il comportamento civico e morale delle persone.
Esiste un video in cui un attore si veste prima con jeans, scarpe da tennis, giaccone e berretto nero, in modo abbastanza trasandato da farsi passare per un senzatetto. Successivamente si veste in modo elegante: completo, giacca, cravatta e pantaloni, occhiali da sole e stivaletti neri. Nella stessa strada, in due momenti differenti, questo attore finge di sentirsi male e s’accascia a terra.
Nel primo caso, nei panni del senzatetto, nessuno gli si avvicina. Persone di tutte le età lo osservano e scelgono di allontanarsi o di ignorarlo apertamente. Nella modalità “elegante” invece questo attore quasi non fa a tempo ad accasciarsi a terra che subito gli sono addosso per prestargli soccorso, per accertarsi della sua condizione.
Questo è un classico esempio dello scarto tra gli alti valori morali interiori che un cittadino pensa di avere quale individuo parte di una comunità – e l’agire all’esterno quando viene chiamato dalle situazioni.

Tornando al parallelo con i videogiochi, la mia domanda è la seguente:

- quale senso ha, per un appassionato, indossare pubblicamente delle magliette che ritraggono supereroi, o acquistare e giocare videogiochi di eroi, di personaggi di fantasia che operano quale simbolo di bene e che promuovono valori di giustizia e moralità - se poi nella vita fisica, dinanzi al prendere decisioni, al reagire a certe situazioni, vi è diffidenza, indifferenza, malafede, assenza di senso civile e di coraggio.

In ogni film di supereroi è presente almeno una scena di salvataggio di un essere umano, o quanto meno di protezione di un soggetto debole o ferito. L’eroe in genere non va a fare le pulci, non si chiede chi è che sta salvando. Ora, possibile che nessuno fra tutti quelli transitati in quel momento su quella strada di città in pieno giorno fosse un appassionato di videogiochi e supereroi che non abbia avuto un minimo di coscienza civile nel fermarsi a chiedere a quell’uomo come stava?
Volendo evidenziare questa dissonanza che esiste fra mondo fittizio e quello materiale, tra mondi di fantasia che simulano aspetti della realtà fisica e la stessa, se Superman, o Batman, o Solid Snake, o Nathan Drake, o Lara Croft, Master Chief, Sam Bridges entrano in contatto dal punto di vista etico e morale con l’interiorità dei loro consumatori, ma questi non alzano un dito per dare adito a una trasformazione positiva nel mondo reale, ecco che la loro finta esistenza, il loro potere di brand, la loro capacità di entusiasmare diventano solo spettacolarizzazioni, espressioni di ideologie capitaliste tese a esaltare l’ego proiettivo dei consumatori stessi al fine di sfruttarli, di spillare quattrini ogni volta che qualcuno di loro tira fuori il portafogli per pagare il biglietto al cinema, acquistare un fumetto, un action figure, o un videogioco.

Nel momento del bisogno, se gli appassionati che li promuovono non applicano
nella propria vita i loro valori di giustizia e moralità, cosa diventano i supereroi?

Idealizzare un supereroe, un eroe di videogiochi piuttosto che un infermiere o un vigile del fuoco anonimo, è più salvifico e facile poiché colloca lontano da se stessi, deresponsabilizza da ciò che come esseri umani si sarebbe chiamati a pensare o a fare se qualcuno nella comunità avesse bisogno.
In qualità di consumatori, oggi sembra quasi che ciò di più concreto e reale in generale per molti videogiocatori non sia rintracciare connessioni e relazioni fra la realtà fisica e i mondi immateriali giocati, bensì l’ossessione e l’aspettativa per il futuro tecnologico del videogioco. È questo ciò che quasi sempre finisce con l’occupare tutto l’orizzonte del pensabile sul videogioco. Un po’ come se dovesse essere solo questa l’unica sfida entusiasta che si può lanciare verso il futuro.

L'ossessione per la guerra tecnologica polarizza spesso ogni orizzonte
culturalmente pensabile sul videogioco.

I videogiocatori, ma parliamo anche degli esseri umani in genere, preferiscono una sorta di salvifico determinismo tecnologico che distoglie e allontana dai dolori dell’auto-analisi. E chi in genere divulga sui videogiochi contribuisce a tal punto a introiettare tali orientamenti deresponsabilizzanti che il basso livello culturale che ne viene generato finisce spesso col permeare moltissimo di ciò su cui invece si potrebbe riflettere e crescere trattando di videogiochi.

In questi giorni di restrizioni e di confino imposto dal governo a causa dell’emergenza del virus Covid-19, è facile per molti credere che la situazione possa risultare positiva per il videogioco, perché in questo modo la parola “PlayStation” può correre sulla bocca e sulla penna di tutti quale cosa utile per trascorrere il tempo a casa.
I videogiocatori, i difensori integralisti a oltranza del videogioco ovviamente si ringalluzziscono, non si sentono emarginati, hanno modo di vedere i riflettori sulla loro passione. Ma a prescindere dalla situazione che ha determinato l’emergenza virale, siamo così sicuri che intendere il videogioco come riempitivo, come distrazione sociale e fuga dal reale sia positivo per la concertazione culturale dello stesso?
Quanto sarà ancora più difficile poi uscire da un sistema culturale che ha considerato il videogioco quale strumento utile per NON pensare, in luogo della riflessione e la comprensione del mondo?

Ora, cosa c’entra tutto questo, come s’inscrive tutto ciò con chi fa critica videoludica, con la critica di videogiochi?
Se in genere il videogiocatore non si sofferma a riflettere e a criticare il significato e la portata delle azioni simulate e performate nel contesto virtuale di gioco, il ruolo del critico di videogiochi deve essere anche quello di qualcuno che si assume l’impegno culturale della scrittura sui videogiochi. Una scrittura da affrontare come una sfida verso se stessi, affinché diventi un lavoro a favore di coloro che leggono.
Mi riferisco proprio a un lavoro di scrittura, di analisi e auto-analisi che possa sfidare in primis la difesa a oltranza della propria passione e l’ambito socializzato che questa genera – e per il quale si ha poi timore del confronto e del dissenso dell’altro, del mettersi in discussione e di risultare non allineati al pensiero comune, di risultare fuori dal coro, per capirci.
Se i videogiochi sono in contatto col mondo in cui viviamo, un lavoro critico culturale simile risulterebbe non solo banalmente la più alta forma di onestà intellettuale che si possa inseguire, ma anche la scelta più nobile votata all’impegno sociale fuori dal videogioco.
Se non esistono ancora tecnologie che permettono al videogiocatore di sentirsi moralmente chiamato a rispondere delle proprie scelte nel mondo di gioco, di vedere le connessioni che esistono fra mondi virtuali immateriali e quello reale, chi fa critica di videogiochi, per quanto possibile, dovrebbe quindi assumersi anche il compito ideale di ridurre lo scarto tra i significati e le responsabilità che si generano e si provano nell’agire all’interno del videogioco in relazione a quelli fuori dal videogioco."
Luigi Marrone

(Questi argomenti e molti altri sono trattati in esclusiva nel n.1 della rivista Ludenz, reperibile sul sito www.ludenz.it)