Videogiocatori ai tempi del virus, fra coscienza, ipertrofia dell’ego e civile responsabilità.


N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#1 di Reflexions, la video-rubrica di Ludenz basata su riflessioni afferenti alla cultura del (e oltre il) videogioco.
È possibile visionare l'episodio integrale cliccando il video sopra.


"Premetto che la breve riflessione che voglio registrare con questo Vlog nasce da domande che ho rivolto in primis a me stesso in qualità di videogiocatore. Domande che nascono da ambiti che ho sentito sollevarsi e prendere forma dentro me, nella mia coscienza, e che mi hanno portato a interrogarmi sul mio ruolo e sulla mia consuetudine nell’essere un videogiocatore.
Logicamente ne sono venute fuori considerazioni relative ad alcuni aspetti che interessano il videogioco in sé, gli ambiti interattivi che presenta, quindi considerazioni che possono essere prese autonomamente, anche all’infuori del tema principale di cui voglio trattare.
Ciò per dire che non è mia intenzione pormi in una posizione emancipata, che prende le distanze dalle maggior parte dei videogiocatori e dalla idea che posso avere di loro: io sono un videogiocatore e quindi, analizzando soprattutto i miei pensieri, posso prendermi quale esempio diretto e avanzare considerazioni riguardo le mie esperienze appunto da videogiocatore.
Voglio venire subito al punto della questione.

Cyberspazio e (impossibilità di) contaminazione virale

Quando si parla di contaminazione virale o di contagio, credo che la dimensione spaziale più sicura in cui vivere sia quella virtuale dei videogiochi. La dimensione digitale può al massimo accogliere dei bug, cioè degli organismi non biologici composti di codice informatico, dei programmi che non hanno alcun effetto biologico sull’organismo umano. Ringraziando il cielo non siamo ancora nel futuro cyberspazio descritto da William Gibson, nel quale si possono verificare contaminazioni mentali quando ci si interfaccia con una console che permette l’entrata neuronale e sensoriale all’interno della dimensione digitale.
Ciò su cui mi preme riflettere è che allo stesso modo in cui non si muore per il game over di un videogioco, i videogiocatori tendono ad abituarsi a respirare e a restare salvi e incolumi all’interno della dimensione protetta del videogioco. Sì, perché il videogioco resta una dimensione protetta, un mondo digitale che dal punto di vista biologico è a prova di infiltrazione e di contagio virale.
Così, in questi giorni più che mai, mi sono ritrovato a pensare ad alcuni comportamenti tipici della maggior parte dei videogiocatori all’interno dei mondi di gioco, comportamenti richiesti e incensati in special modo da alcune tipologie di videogiochi più giocati. Ad esempio mi sono soffermato a pensare ai videogiochi competitivi, ai “tutti contro tutti” dei Battle Royale, ai picchiaduro e in genere a una tipologia e psicologia di gioco derivata dall’era più simbolica dei video games.
Mi riferisco in particolar modo alla accumulazione quantitativa di punti e vantaggi a discapito di altri giocatori. Mi riferisco al desiderio di primeggiare, alla ossessione per l’accumulo quale dinamica endogena di certi videogiochi di tipo agonistico e prevaricante rispetto al prossimo.
Mi sono messo a riflettere sull’individualismo in luogo della cooperazione, sul vantaggio di garantirsi una posizione protetta all’interno di una mappa di gioco rispetto a coloro che vagano in modo precario.
E così, per analogia con questi giorni in cui l’Italia fronteggia l’infezione virale del Covid-19, cioè di un nuovo organismo per i quale al momento non ancora esistono vaccini, e si è reso necessario dichiarare l’Italia intera “Zona protetta” per la quale sono vietati gli spostamenti se non per comprovate necessità, ecco che io penso alla corsa e agli assembramenti davanti ai supermercati per accaparrarsi cibo e altro, al pensiero di battere sul tempo gli altri che hanno normale bisogno.
Nonostante il governo abbia assicurato che i centri commerciali resteranno aperti e sarà garantito il normale approvvigionamento di cibo e beni di prima necessità, l’atteggiamento quasi bulimico nel mettere decine di pacchi di pasta nei carrelli della spesa, assieme a bottiglie di sugo di pomodoro, disinfettante per mani, pizze surgelate, bottiglie d’acqua, carta igienica, ecc.. rispetto a coloro che poi trovano gli scaffali vuoti e saccheggiati, mi ha fatto pensare all’atteggiamento prevaricante e predatorio che è insito nella psicologia accumulatrice di punti tipica dei videogiocatori.
Così come la fuga in massa dalle zone rosse in Italia, che fa pensare ai cerchi di morte che si restringono nei Battle Royale tipo Playerunknown’s Battleground o Fortnite, e tutti via a convergere nelle zone sicure, portando la guerra per la dominazione in zone sempre più strette, dove ne prevarrà solo uno, alla fine…
(qui di seguito la mia video-analisi di un titolo Battle Royale sui generis)


Ecco, ciò che mi sono chiesto è stato quanti italiani fuggiti dal Nord Italia in questi giorni fossero appassionati di videogiochi, individui che hanno metabolizzato certe dinamiche interattive tipiche dei videogiochi. E quanti di loro, asintomatici, non abbiano rispettato le norme di distanziamento sociale, abbiano violato le raccomandazioni, siano stati diffidenti verso le misure precauzionali del governo e non abbiano comunicato alla propria ASL di competenza – come richiesto dal governo stesso - di provenire da zone con alta densità di infezione, e quindi di poter essere a rischio contagio.
Mi sono chiesto quante possano essere state le persone per le quali sarebbe possibile vedere in atto certe dinamiche promosse da alcuni modelli di specifici videogiochi.
Ecco, la questione è se, presa in larga scala, il meraviglioso mondo dei videogiochi, il tempo umano che è capace di assorbire, contribuisca a sviluppare non tanto una aridità critica nell’uomo per ciò che lo circonda fuori dal gioco stesso, quanto una psicologia relazionale nella negoziazione col prossimo orientata verso l’individualismo, la diffidenza, l’ipertrofia del proprio ego e in definitiva una certa insofferenza empatica verso la società che non tiene di conto l’importanza del consorzio umano. Una psicologia che riduce l’esigenza di sentire l’importanza di risultare civili in un contesto di auto-limitazione responsabile verso l’altro, poiché questa psicologia preferisce l’idea egoista del “Me ne frego degli altri in gioco fintantoché io prevalgo e le cose vanno bene a me e sto bene io”
Perché prendo a prestito proprio i videogiochi?
Perché sono l’ambito che più fornisce spazi d’azione in grado di simulare risposte dirette e possibili all’agire individuale del giocatore, ma che al contempo più lo abitua a sentirsi libero, sempre fisicamente incolume e protetto rispetto alle conseguenze reali delle proprie azioni.
Non mi riferisco alla imitazione sul piano reale delle azioni performate all’interno dei mondi digitali, così come non voglio trattare delle virtù dei videogiochi, del fatto che possano simulare modelli di realtà che poi risultano più facili da scomporre e capire e criticare.
No, quello su cui secondo me c’è da riflettere è che i videogiochi non sono delle rappresentazioni neutrali, ma dei sistemi creati da umani che hanno loro culture, ideologie, loro valori. Anche uno sparatutto (vedi Shoot'em up) possiede una teoria di funzionamento del mondo che va a rappresentare, e che condiziona il modo in cui percepiamo e reagiamo al mondo fuori dal gioco.
Ora, la domanda è:
- Dato un mondo di intrattenimento videointerattivo digitale, la naturale capacità umana di proiettarvisi, la salvifica familiarità con un sistema chiuso che ricompensa l’ego garantendo al suo interno sicurezza e incolumità del giocatore, può forse risultare propedeutica al fine di far sviluppare certi atteggiamenti di pensiero etico individualista, egoista e nichilista verso i contesti reali in cui lo stesso giocatore vive ed è chiamato ad agire responsabilmente?
- Può l’abitudine ai mondi protetti del videogioco renderci più egoisti, eticamente discutibili se si parla di atteggiamenti fatti prevalere nel mondo fuori dal gioco?

Ovviamente sto facendo una generalizzazione, ci sono moltissimi videogiochi che possiedono storie, dinamiche e spazi di azione che promuovono ambiti di riflessione che mettono in crisi il ruolo del giocatore all’interno del gioco stesso, e che potenzialmente possono portarlo a criticare la realtà che lo circonda.
Ma quanto è possibile crescere pigri e viziati da sentimenti di protagonismo che vengono promossi dai videogiochi?
Ciò che mi auguro – e ripeto, parlo da gamer che possiede oltre trent’anni di esperienza con il videogioco – è che i videogiocatori abbiano il buon senso di mettere il naso oltre i confini dello stesso, e che le giovani generazioni che stanno crescendo nella bellezza, nella versatilità, nella virtualità, nel progresso tecnologico e nella potenza immersiva del videogioco, sappiano sviluppare una lungimiranza critica verso il mondo fuori dal videogioco.
Una lungimiranza che trascenda la loro passione, che quando occorre sappia criticarla andando oltre lo stesso videogioco."
Luigi Marrone