Quarantena e videogiochi: nuovi criteri di scelta, la dignità del videogiocatore



N.B. Nell'ottica di Ludenz quale progetto di convergenza crossmediale, quella che segue è la trascrizione in forma testuale - arricchita da link e immagini - dell'episodio#3 di Reflexions, la video-rubrica di Ludenz basata su riflessioni afferenti alla cultura del (e oltre il) videogioco.

È possibile visionare l'episodio integrale cliccando il video sopra.

"Quando ci si muove per ipotesi, diversi sono gli argomenti che possono risultare interessanti trattare riguardo ai videogiochi. La situazione di emergenza che il mondo sta vivendo in questi giorni a causa del virus Covid-19 apre a degli scenari intellettuali che si prestano ad alcune considerazioni particolari sul rapporto che si può stabilire con il videogioco.
Esiste un videogame chiamato Plague Inc., un simulatore strategico di pandemia pubblicato nel 2012, che richiede al giocatore l’eliminazione dell’intera popolazione mondiale tramite la diffusione di virus o batteri o altro prima che sia trovata la cura. Dal vincere il premio 'Players Choice' come Miglior Strategico Mobile del 2012, sino a giungere alle dichiarazioni di portali di critica specializzata che affermavano “uccidere miliardi di persone non è mai stato così divertente”, è stato un attimo.
Ora, non è tanto il fatto che l’opera, giocatissima in Cina, ha suscitato polemiche tali che la Cyberspace Administration cinese lo ha rimosso dagli store digitali per la presenza di contenuti illegali. Quello che risulta interessante è che lo sviluppatore del gioco ha dichiarato che metterà a disposizione una modalità scaricabile gratuitamente in cui bisogna salvare l’umanità da virus. In pratica, il cuore dell’esperienza andrà a modificare la sceneggiatura originale al fine di dare possibilità al giocatore di arrestare la pandemia, di agire in nome dei governi mondiali per potenziare i sistemi sanitari, amministrare i controlli, i servizi pubblici, il distanziamento sociale, la quarantena, ecc..
Si tratta di un chiaro esempio di edutainment, di intrattenimento educativo, che pone cioè l’attività ludica al servizio - in questo caso - della sensibilizzazione e dell’ampliamento di coscienza dei giocatori verso ciò che sta accadendo in questo momento storico.
Se andiamo a vedere, le polemiche sollevate dagli stessi giocatori rappresentano un esempio dello stretto rapporto che può esistere tra vita fisica e vita virtuale nel videogioco. Si tratta in questo caso di una manifestazione di egoistica contraddizione, definiamola così, dato che riguarda il come, quando si considerano i videogiochi solo intrattenimento, sembra non esserci nessun problema a giocare a sterminare il mondo, ma quando ciò che si gioca è vicino a ciò che accade all’uomo e a ciò che più lo preoccupa, a quel punto s’alza la voce e si urla ai provvedimenti. Un po’ come se i videogiochi, di qualsiasi genere essi siano, non fossero sempre una forma di razionalizzazione della vita umana, indipendentemente dalle intenzioni degli autori che li hanno creati (vedi lo splendido video di Paolo Pedercini Videogiochi & l'essenza del capitalismo).
Ora, a parte il disquisire su quanto sia giusto o meno modificare un’opera artistica o quanto la si possa definire compiuta se poi la si stravolge nelle sue fondamenta ludiche, per me è un altro l’interrogativo che sorge.
Ipotizzando il perdurare indefinito nel tempo di una condizione di reclusione fisica come quella che stiamo vivendo, cosa potrebbe produrre psicologicamente nei videogiocatori l’immersione, l’impatto, la proiezione verso situazioni e personaggi di videogiochi che ricordano, che simulano condizioni di libertà perdute dell’uomo? Personaggi attraverso i quali possono essere effettuati paragoni fra la segregazione fisica umana - in una condizione di emergenza come quella attuale - e l’assenza invece in questi personaggi di problemi di libertà di movimento fisico; tra la loro libertà di connessione sociale con altri personaggi nel mondo di gioco e quella che fisicamente l’uomo non possiede più.
Si tratta di un interrogativo che magari potrebbe più facilmente sorgere in quei giocatori adulti e consapevoli, che hanno l’età anagrafica per ricordare un prima e un dopo e che hanno maturato la necessità di una gestione più ponderata del proprio tempo dal punto di vista esistenziale.
Ma volendo fare un esempio, una delle cose di cui mi sono personalmente reso consapevole in questi giorni è stata come l’emergenza virale, la quarantena, sta naturalmente trasformando la mia valutazione dei videogiochi PRIMA dell’entrata nei mondi digitali, vale a dire quando mi trovo a decidere, col tempo che ho a disposizione, quale videogioco giocare. Mi sono reso conto che nel calderone degli elementi valutati, a pagarne lo scotto non sono l’estetica, le meccaniche, il gameplay o il genere di videogioco, bensì il comparto narrativo.
Volendo essere più preciso, è come se le narrazioni determinate dai personaggi dei videogiochi lontani da ciò che il mondo vive in questo momento e che danno adito a loro storie private - edificanti o meno - non avessero più un ruolo di intrattenimento rilevante. Anzi.
Sempre ipotizzando una condizione di quarantena indefinita nel tempo, mi sono ritrovato ad esempio a pensare a quale considerazione e impatto avrebbe, nella gestione economica del proprio tempo, trascorrere ore a vivere la storia di un personaggio di Grand Theft Auto, o di un esploratore a caccia di tesori e leggende come Lara Croft quando un virus ha messo in ginocchio le nostre libertà sociali di contatto fisico, e si è obbligati a restare chiusi in casa, confinati.
Dato un tale scenario, se si inizia a portare avanti un minimo di autoanalisi, diventa facile chiedersi quale senso ancora avrebbe attendere il prossimo videogioco che presenta l’ennesima insurrezione di zombie violenti, di sopravvissuti umani che si raggruppano per eliminare un nemico esterno a loro quando nel nostro mondo fisico il nemico reale può condurlo il prossimo, e bisogna stargli lontano perché è un virus, un nemico invisibile che vive dentro di lui, o dentro di noi.
In un tale scenario psicologico, potrebbe quindi verificarsi che vi sarà sempre più bisogno, sempre più fame di motivazioni e ragioni esistenziali verso ciò che si compie nel videogioco? E quindi, se dovesse accadere di non poter uscire per mesi dalle proprie case per il rischio di contrarre un’infezione virale, trasformerà questo il cosa giocare e il modo in cui selezionare i videogiochi?

L'isolamento sociale connesso al virus Covid-19, se protratto in modo
indefinito nel tempo, può diminuire l'esaltazione per l'uscita
di giochi di fantasia aumentando il bisogno di ragioni
più esistenziali rispetto a ciò che si compie nel videogioco?

Continuare a trovare un motivo per spendere ore in una simulazione sportiva, in un Battle Royale tipo Fortnite, in un tutti contro tutti, nei giochi competitivi al massacro in cui si ubbidisce alla struttura di gioco e si perde di vista perché si sta combattendo e a quale scopo, alla lunga, non potrebbe diventare quantomeno problematico? (Qui una video-riflessionedel filosofo e youtuber Riccardo Dal Ferro sul rapporto Competizione - Obbedienza che caratterizza i Battle Royale)
Psicologicamente, mi chiedo, non avverrebbe forse un rifiuto che porta a discriminare, a lasciare fuori dalla porta il tipo di esperienza videoludica che rappresenta ciò che non si può essere, ciò che sembra più idiosincratico, incompatibile con quello che non potremo più essere?
Certi generi e contenuti videoludici, normalmente considerati splendidi quanto impossibili mondi di fantasia per fare esperienze di vite virtuali che mai avremmo potuto vivere, non potrebbero diventare qualcosa che, dopo un’autoanalisi, si preferirebbe allontanare nel momento in cui si diventa coscienti che non si può più viverle, che sono lontane dalla vita com’era un tempo?
Questa addizione di vita alla vita, una delle virtù solitamente attribuite al videogioco - ma anche a tutte le arti in genere - non sarebbe forse più difficile accoglierla con piacere dato che non si è più liberi fisicamente di viverla, di muoversi ed esplorare la dimensione fisica della vita?
A quel punto cosa accadrebbe? Prevarrebbe forse una produzione di giochi simbolici e astratti? O magari di quelli apocalittici che più rispecchiano la nostra condizione di pseudo-libertà? Saranno psicologicamente rifiutate le esperienze videoludiche che simulano contesti di connessione fisica sociale, che presentano personaggi che si aggregano fisicamente e socializzano e dialogano?
Ci si interesserebbe maggiormente ad esperienze meno idealizzate e più vicine alle condizioni sociali presenti, più socialmente rilevanti? Perché, a ben pensarci, quale mitizzazione, quale potere potrebbero ancora avere Batman o Spider-Man se nelle strade vuote non vi fosse più gente, se non esistessero più ambiti sociali fisici ai quali rapportarli? A quel punto forse verrebbe tutto riportato all’umano, sarebbero considerati veri eroi i medici, gli scienziati, coloro le cui azioni non si riferiscono a fantasie impossibili?
E se la “PlayStation come mezzo per far trascorrere il tempo durante l’emergenza virale” - come la narrazione di questi giorni sul ruolo del videogioco vuol farci pensare - divenisse invece “PlayStation come mezzo per scremare dal tutto e selezionare ciò che risulta più connesso rispetto al Tempo dell’uomo, a ciò che di più contingente lo riguarda?”
Potrebbe tutto questo portare il videogiocatore consapevole a focalizzare più lucidamente le strutture di gioco, le meccaniche, il gameplay, la narrazione, e in generale gli intenti più profondi di un videogioco?

Ripeto, si tratta solo di speculazioni, di ipotesi e scenari che vengono alla mente per ciò che in questi giorni il mondo sta vivendo. Eppure non nascondo come tutto questo metta in luce un aspetto dei videogiochi che più volte in passato mi sono ritrovato a ipotizzare. Mi riferisco a una nuova tassonomia, una nuova classificazione dei videogiochi al fine di una scelta più precisa di ciò a cui giocare. Una scelta che sappia maggiormente tenere di conto la coscienza, l’interiorità e la disposizione psicologica e umorale del giocatore. Non mi riferisco solo a una terminologia più ficcante nel sintetizzare l’esperienza del vivere un videogioco, ma anche a una diversa consapevolezza che sappia tenere meglio di conto il rapporto fra giocatore e i mondi di gioco che questi va a giocare.
Tempo fa, dicevo, ipotizzavo nuove classificazioni nate dalla sensibilità, dalla capacità umana di leggere i videogames. Classificazioni che è possibile effettuare attraverso l’empatia con gli avatar, il sentire i personaggi presenti, e in genere con l’intero mondo di gioco. Una sensibilità che porterebbe poi a creare nuove definizioni di genere dei videogiochi stessi. Se oggi abbiamo Action-RPG, Avventura Grafica, Metroidvania, Puzzle Game, Walking Simulator, Sparatutto, Survival Horror, ecc.., si potrebbero avere classificazioni basate su descrizioni connesse a ciò che il giocatore si trova a vivere immergendosi in quel videogioco.
Alla domanda “Non hai giocato il nuovo Uncharted?”, ci si ritroverebbe così a rispondere non solo con “No, mi sono stancato della sua struttura platform, delle meccaniche sempre uguali di gioco”, bensì “No, mi sento lontano dal proiettarmi nell’esploratore fisicamente superuomo Nathan Drake, nei suoi scenari ai confini del mondo, nei suoi conflitti e avidità da avventuriero omicida che lui cerca di nascondere con battute di serie B. E poi è ambientato in Egitto, è uno scenario che ho vissuto in tanti altri videogiochi, non mi interessa.

Questo è solo un esempio fantasioso, e sono consapevole come il giungere a una tale profondità di analisi e autoanalisi rispetto al videogioco sia qualcosa di puramente ideale. Eppure sarebbe interessante se una nuova classificazione dei videogiochi potesse riportare in modo sintetico anche i luoghi di gioco, gli scenari, i caratteri dei personaggi incontrati, i temi proposti e in definitiva il modo in cui è tenuta di conto la complessità umana del potenziale giocatore.
Insomma, io fantastico di una classificazione che tenga di conto la proiezione del giocatore nel mondo di gioco nella misura di una incorporazione, di una immedesimazione mirata a sentire l’anima di Solid Snake, di Sam Bridges, di Lara Croft o Gordon Freeman, così da comprendere in anticipo se si vuole entrare nel loro mondo, se si vuole giocarlo o meno. Non mi riferisco solo alla prefigurazione delle azioni che si possono compiere vestendo i panni di un determinato personaggio, a ciò che si può o non si può fare secondo le meccaniche di gioco, bensì alla intuizione di ciò che questi “sente” a contatto con l’universo in cui agisce in modo virtuale.
Da questo punto di vista è bene ricordare che il videogioco non prende le distanze dal giocatore come un film fa con uno spettatore. Il videogioco chiama a una (com)partecipazione che può richiedere ore di immedesimazione, di controllo, di empatia, di psicologica proiezione del sé. Il rapporto che si può stabilire con un personaggio, con un mondo videoludico, richiede energie qualitativamente diverse dalla fruizione di un concerto dal vivo, di un film o di un’opera teatrale.
Da questo punto di vista si potrebbe dire che la stessa Intelligenza Artificiale che muove i personaggi dei videogiochi, e con la quale il giocatore stabilisce una relazione, non sia qualcosa di morto, bensì una forma di vita altra, dotata di una intelligenza appunto… artificiale. Una intelligenza che comunque deriva da quella dei suoi creatori umani, e per la quale si potrebbe affermare, che ne so, che Solid Snake contiene Hideo Kojima più di quanto potremmo immaginare.
Ciò per dire che avatar e personaggi non giocanti possono essere anche considerati dei canali, dei veicoli umani traslati nel videogioco, alla mercé di chi vi interagisce o vestirà i loro panni. Imparare dunque a classificare un sentire i personaggi e i vari mondi di gioco potrebbe dare adito a un nuovo metodo di discriminazione ludica, di nuovi modi per decidere cosa giocare.
Personalmente non riuscirei in questi giorni a giocare Uncharted, ad essere Nathan Drake – tanto per citare un esempio già utilizzato. Non riuscirei a sentirmi nel mondo di Nathan Drake. L’emergenza virale sembra mettere in ombra il possibile consumo di grandi produzioni, di prodotti d’intrattenimento dall’anima hollywoodiana e spettacolarizzata.
E allora NO in questi giorni alla commedia verbale e action di Nathan Drake e SÌ al silenzio di The Last Guardian. NO alla critica sociale, alle situazioni, alla violenza, alle provocazioni e alle chiacchiere dei personaggi di un Grand Theft Auto o ai supereroi che pretendono riferirsi a situazioni reali quanto superumane, e SÌ agli aerei pilotati in soggettiva in realtà virtuale in un gioco come UltraWings, ad esempio. Si tratta, in definitiva, di saper leggere ciò che è più armonico, rispettoso, per certi versi dignitoso per la propria interiorità.

Tevis Thompson
Critico indipendente

È stato attraverso il critico indipendente Tevis Thompson che ho iniziato a sentire parlare di video gioco che deve “rispettare la dignità del giocatore”.
Se un videogiocatore che spende molto del proprio tempo-vita nelle grandi produzioni videoludiche giunge a sentire che sta prendendo decisioni troppo forzate, troppo basate sulle semplificazioni guidate e decise in fase di sceneggiatura e game design, tale aspetto così connaturato ai videogiochi – così endogeno in questi sistemi vampireschi nel succhiare tempo - può risultare degradante dal punto di vista umano.
Per certi versi si potrebbe affermare che ciò che risulta troppo idealizzato, funzionale, razionale, strumentale, controllante, quantificato rispetto alla sensibile complessità umana, stabilisce anche il grado in cui un videogioco sa riconoscere dignità al giocatore.
Perché come sempre, alla fine, non si tratta mai soltanto di videogiochi."

Nb. È possibile trovare simili argomenti, riflessioni e molto altro trattati in esclusiva nella rivista Ludenz, reperibile su www.ludenz.it.