
Konami ha scelto una strada che, sulla carta, sembra rassicurante. Il gameplay sarà fedele all’originale, con solo qualche piccola aggiunta/variazione (opzionale) che aggiorna i controlli, rendendoli più fluidi e accessibili agli standard odierni. Il resto – ci dicono – resterà intoccato. Stessa storia, stesse ambientazioni, stessi personaggi. Addirittura la stessa, grandiosa regia di Hideo Kojima. Una roba molto differente rispetto, ad esempio, al precedente Twin Snakes, remake per Gamecube del primo capitolo che stravolse in maniera non proprio ottimale il titolo originale. Il grande cambiamento in Delta è, in pratica, nella grafica. Ma è qui che iniziano i miei dubbi. Per quanto siano incredibili le immagini che abbiamo visto finora, resta da capire se un cambiamento estetico possa davvero giustificare un remake. Soprattutto quando parliamo di un titolo che, nel 2004, era già perfetto nel suo equilibrio tra narrazione, gameplay e direzione artistica. Snake Eater non era solo un gioco, ma un’esperienza emotiva, dove ogni dettaglio – dalla colonna sonora alle scene cinematografiche – contribuiva a creare un’atmosfera irripetibile.
Mi è venuto in mente di scrivere questo pezzo dopo la lunga chiacchierata con Luigi e Luca Miranda fatta alla Milan Games Week 2024 (trovate il link alla discussione qui) perché non riuscivo a togliermi dalla testa una domanda: quanto siamo disposti ad accettare i cambiamenti per rendere moderni i capolavori del passato, senza perdere ciò che li ha resi tali? Parlando del remake di Metal Gear Solid 3: Snake Eater, mi sono reso conto che la questione è più complessa di quanto sembri. E, probabilmente, molti di voi si staranno facendo le stesse domande.



Qui entra in gioco un aspetto che non posso ignorare: il distacco emotivo che provo già ora, vedendo le immagini del “nuovo” Snake rispetto a quello originale. Questo Naked è, senza dubbio, incredibilmente fotorealistico: ogni dettaglio del suo volto, della sua mimica e dei materiali che indossa è ricreato con una cura maniacale. Ma, paradossalmente, è proprio questa precisione a farmi sentire distante. Lo Snake del 2004, pur con i limiti tecnici dell’epoca, aveva una sua identità unica. Era caricaturale, certo, ma quei tratti stilizzati gli davano un carisma inconfondibile, una forza visiva che questo nuovo e futuro Big Boss, così “perfetto”, sembra perdere. I personaggi del gioco originale erano costruiti per colpire l’immaginazione, non per sembrare realistici. Snake aveva una silhouette iconica, uno sguardo duro ma stilizzato, e ogni movimento raccontava qualcosa di preciso. Questo, pur essendo tecnicamente superiore a livello visivo, sembra quasi un’altra persona. E questo mi porta a chiedermi: quanto della sua anima originale si perderà in questo aggiornamento grafico? Questa riflessione mi ha portato non solo a pensare ai remake di altri videogiochi, ma anche a come l’industria affronta le trasposizioni in altri medium, come il cinema e la TV. Se nei remake (videoludici e non) il rischio è quello di perdere l’equilibrio tra fedeltà e innovazione, nelle trasposizioni live-action c’è un ulteriore ostacolo: il distacco emotivo (eccolo che torna) che si crea quando i personaggi che amiamo non sembrano più quelli che abbiamo vissuto nei giochi.



Giusto per fare un esempio recente: pensate alla serie TV di The Last of Us. È stata senza dubbio un successo di critica e pubblico, ma ha anche sollevato polemiche, soprattutto per quanto riguarda il casting. Bella Ramsey nei panni di Ellie ha diviso l’opinione dei fan: non perché non fosse brava – anzi, la sua interpretazione è stata eccellente – ma perché il volto e le espressioni di Ellie, così come le conosciamo nel gioco, sono ormai scolpite nella nostra memoria. Ellie non è solo un personaggio, ma un simbolo di quel viaggio emotivo che The Last of Us ci ha fatto vivere. Questo distacco emotivo, però, è meno evidente quando si parla di trasposizioni di fumetti o cartoni animati. Ed è qui che la situazione si fa interessante. Pensiamo, ad esempio, ai live-action tratti dai fumetti Marvel e DC. In questi casi, il passaggio al live-action è quasi sempre più accettabile, e il motivo è semplice: fumetti e cartoni animati non hanno il fotorealismo dei videogiochi moderni. I loro personaggi sono disegni, caricature idealizzate, che lasciano spazio all’immaginazione.



Quando vediamo un attore interpretare Spider-Man o Batman, non ci aspettiamo che assomigli esattamente a un disegno su carta. La nostra mente è già abituata a tradurre quei tratti stilizzati in qualcosa di più “reale”. Tom Holland, ad esempio, è un Peter Parker diverso rispetto a quello disegnato da Steve Ditko, ma questo non ci disturba, perché il legame emotivo che abbiamo con Spider-Man non dipende dal suo volto, ma dalla sua storia, dai suoi valori e dal modo in cui li incarna sullo schermo.



Lo stesso vale per i live-action tratti dagli anime giapponesi, anche se con qualche riserva. Quando Netflix ha realizzato la serie live-action di Cowboy Bebop, il confronto con l’opera originale era inevitabile, ma non tanto sul piano visivo quanto su quello narrativo e stilistico. Il problema di queste trasposizioni non è mai “quanto somigliano i personaggi”, ma “quanto rispettano l’anima dell’opera originale”. E qui torniamo ai videogiochi. Se il problema del live-action è la difficoltà di replicare l’autenticità dei personaggi originali, nei remake il rischio è quello di perdere l’equilibrio tra fedeltà e innovazione. Guardiamo alle recenti riproposizioni della serie Resident Evil. Quelli del secondo e terzo capitolo sono stati accolti positivamente, perché non si sono limitati a migliorare la grafica, ma hanno anche reimmaginato l’esperienza di gioco, introducendo nuove dinamiche e arricchendo la narrazione. Con il remake di Resident Evil 2, in particolare, Capcom ha dimostrato che è possibile rispettare il passato senza restarne prigionieri.



Ma poi c’è la nuova versione di Resident Evil 4. Tecnicamente eccezionale, sì, ma qui la necessità di un remake è meno chiara. L’ originale è ancora oggi un punto di riferimento per il genere action, e le modifiche apportate nel rifacimento, seppur valide, non giustificano pienamente l’operazione. Non è sbagliato riproporre un classico, ma il rischio è quello di farlo per motivi più commerciali che artistici. Alla fine, quello che voglio dire è semplice: i videogiochi non hanno bisogno di essere rifatti o adattati per dimostrare il loro valore. Sono opere già complete, capaci di emozionarci attraverso un linguaggio unico, che non ha bisogno di conferme esterne. Se decidiamo di rifarli, dobbiamo farlo con rispetto, senza tradire ciò che li ha resi speciali.



Quindi, mentre aspetto di vedere Metal Gear Solid Δ, il mio augurio è che questo remake sappia andare oltre la grafica. Che riesca a restituire quelle emozioni che ci hanno fatto innamorare di Snake Eater. Perché, alla fine, ciò che conta davvero non è la risoluzione, ma il cuore. E quello non si può semplicemente aggiornare. Logan Singer